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Alcune annotazioni
Le due letture mi arrivano singolarmente accomunate dall’idea del percorso e di quelle correlate della pazienza e della fiduciosa speranza. Noè deve far uscire diverse volte uno dei volatili salvati nell’arca con lui: un corvo dapprima e poi una colomba due volte, a distanza di sette giorni l’una dall’altra uscita, prima che la colomba stessa possa riportare nel becco il segno dell’avvenuta pacificazione delle potenze naturali. Gesù dal canto suo opera una guarigione in modo nuovo, non soltanto mediante la parola, ma questa volta accompagnata da un gesto e dalla sua saliva per restituire la vista a un uomo non vedente. Anche in questo caso si tratta di una guarigione progressiva, ottenuta lungo una sequenza temporale: dapprima l’uomo inizia a vedere, ma in forma indistinta, uomini “come alberi che camminano”; successivamente in modo nitido gli esseri umani in movimento. Sì, mi arriva proprio un forte invito a una pazienza fiduciosa, a una speranza salda capace di sostenere con serena solidità e pacata flessibilità il tempo dell’attesa, che anch’esso è un tempo pieno, da vivere in uno stare centrati, in un “rimanere innestati” come “tralci nella vite” (Gv 15,1-11) senza scomporsi, senza sbilanciarsi.
C’è un ulteriore elemento da rilevare su cui apporre un’annotazione a margine del testo: l’incontro di Gesù con l’uomo non vedente e la guarigione in due tempi avviene a Betsaida, terra altrove da Gesù rimproverata quale luogo d’incredulità (Mt 11,21). Questo spiega perché Gesù conduce l’uomo da guarire “fuori del villaggio” e lo esorti poi, già dopo averlo guarito, a “non entrare” lì, dunque a non rientrarvi. Si palesa così in modo forte e chiaro come la mancanza di fede sia energia che ostacola la manifestazione del potere taumaturgico dello stesso Gesù e di conseguenza anche di quello posto in noi esseri umani quand’anche a lui intimamente connessi. L’incredulità ha un potere paralizzante: altrove viene detto che “a Nazaret” Gesù “non compì molti miracoli a causa della loro incredulità” ed egli stesso afferma che “un profeta non è disprezzato se non in patria, tra la sua gente e in casa sua” (Mt 13,57-58) in quanto ne viene banalizzato il potere interiore. “Ma non è costui il figlio di Josef il falegname?” (Mt 13,55-56; Mc 6,3-4). Egli stesso sceglie di non compiere miracoli, probabilmente in quanto sarebbero inutili, come quando – lo abbiamo letto proprio in questi giorni ed è brano presente in tutti i tre vangeli sinottici – gli viene ossessivamente “chiesto un segno” che, come tale, non basta mai (Mt 12,38-39; 16,1-4; Mc 8,1-3; Lc 11,29-39).
Discendo ancora in un ulteriore dettaglio appena sopra accennato: Gesù conduce l’uomo “per mano”. E’ un gesto di tenerezza e attenzione, tutt’altro che ieratico, che egli compie anche nei confronti della figlia del capo della Sinagoga, Giairo, quando la risveglia dal primo sonno della morte (Mt 9,18-26; Mc 5,21-43; Lc 8,40-56). Vi scorgo i tratti di un nuovo modo di concepire e vivere la spiritualità quale realtà di piena umanizzazione, in cui il fuoco è posto non più su gesti sacri diversi e separati da quelli quotidiani, ma è la quotidianità, l’umanità, l’apparente normalità del gesto a rivelare la sua santità interna. Gesù rende trasparente che divino è ciò che è pienamente umano.
NB: gli autori citati sono sempre indicati in forma ipertestuale: puntando il mouse sul nome, si può aprire il riferimento biografico.
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